A VATTIMO IL PREMIO HANNAH ARENDT PER IL PENSIERO POLITICO. PUBBLICHIAMO UNA PARTE DELLA SUA «LECTIO» GIANNI VATTIMO
E'
stata da ultimo formulata, in termini aggiornati, da Toni Negri e Michael Hardt
nel libro Impero, che arriva addirittura a identificare, almeno in una certa
misura, il populsimo antiglobal dei nostri giorni con il cristianesimo delle origini;
come i cristiani furono il fattore decisivo nel dare il colpo di grazia all'impero
romano già in via di dissoluzione, così oggi le moltitudini dei diseredati dalla
ristrutturazione globale dell'economia mondiale finirannmo per condurre alla rovina
l'impero americano. La teoria di Negri e Hardt non si pone naturalmente il problema
del dopo - giacché è proprio dopo la caduta dell'impero romano che si è costruito
l'ordine mondiale poi sboccato nella situazione attuale.
Sembra
che, del resto con qualche ragione, Negri e Hardt pensino la storia nei termini
della Critica della ragione dialettica di Sartre: momenti di autenticità
- le rivoluzioni e le nuove società che esse fondano - seguiti dalla fatale ricaduta
nella serialità, burocraticità, dominio del «pratico inerte». Una visione che
ha il suo fascino (largamente sentito dalla sinistra intellettuale americana),e
che però o si decide per un esito religioso (la salvezza sta comunque in un al
di là della storia) oppure per una sorta di estetismo esistenziale (un critico
italiano di Negri ha fatto il nome di D'Annunzio).
Certo
per le stesse ragioni - rifiuto di costruire una filosofia della storia universale
- Negri e Hardt non affrontano nemmeno il problema dell'ordine politico che dovrebbe
succedere alla rivoluzione delle moltitudini; quasi volessero allontanare il più
possible il momento della ricaduta nel «pratico-inerte» e prolungare al massimo
l'esperienza di autenticità del «gruppo in fusione». Eppure la costruzione di
un ordine politico che non risusciti la rivolta delle moltitudini - così chiamano
gli autori di Impero il proletariato mondiale non più caratterizzato dall'omogeneità
di classe dei lavoratori di Marx - si troverebbe a dover risolvere tutte le questioni
che hanno bloccato sul nascere le varie utopie della democrazia diretta, e che
in fondo sono alla base di quella ricaduta nel pratico-inerte che Sartre riteneva
inevitabile.
Senza una
risposta a tali questioni, Negri e Hardt sembrano approdare a una ennesima teoria
della «rivoluzione permanente» che non per nulla suscita l'interesse e il consenso
della sinistra intellettuale, la quale - in America ma anche altrove - vi può
trovare una sorta di legittimazione della propria «pratica teorica», delle sue
tante «decostruzioni» puramente testuali attuate sulle riviste e nelle biblioteche.
Una analoga mancanza di progetti politico-istituzionali si può trovare nelle opere
di Hannah Arendt, più preoccupata di criticare il degrado moderno della politica
che di delineare forme di stato che sfuggano a tale critica.
Tuttavia,
la filosofia politica arendtiana contiene almeno qualche spunto che può aiutare
a caratterizzare l'altra possibile risposta alla domanda sull'ordine politico
che si dovrebbe costruire in alternativa alla globalizzazione delle multinazionali
e alla guerra di Bush. Si tratta della sua preferenza, più o meno esplicita, per
una polis non sovradimensionata, che possiamo tradurre in una preferenza
federalista. Alla globalizzazione dominata dall'economia che si fa, immediatamente,
ordine (abusivamente) politico, non si rimedia con la costruzione d’un parallelo
ordine politico globale.
Del
resto, qui Hannah Arendt incontra le legittime preoccupazioni di tanta sinistra
critica del Novecento, a cominciare dagli esponenti della Scuola di Francoforte,
Adorno soprattutto, che hanno teorizzato una sorta di vocazione inevitabilmente
totalitaria della tecnologia moderna. E' vero che il pessimismo di Adorno - fondato
soprattutto sulla considerazione del potere illimitato dei mass media - può essere
stato smentito dall'uso interattivo che molti dei media da lui «demonizzati» hanno
finito per avere anche in vista della liberazione di minoranze sociali prima senza
voce; ma noi ci rendiamo conto che tale pessimismo è oggi motivato dalle dimensioni
che uno stato «globalizzato» dovrebbe necessariamente prendere per fare da contrappeso
politico alla globalità dell'economia (e del crimine organizzato).
E'
possibile, in altre parole, una politica globalizzata che non perda fatalmente
i tratti della politica autentica - distinta dall'economia e non ridotta a funzione
della sopravvivenza? Naturalmente, qui ci si pone subito una domanda circa la
validità della concezione arendtiana della politica; che appare troppo letteralmente
modellata sulla sua idealizzazione della pòlis greca per poter essere trasposta
senz'altro nella nostra situazione. Per poter utilizzare questi concetti della
Arendt, noi dobbiamo probabilmente spogliarli di una certa retorica legata alla
nozione di onore contrapposta ai valori della sopravvivenza, mantenendo però l'esigenza
e il principio della distinzione tra sfera del sociale, o della società civile
hegeliana, e sfera della politica.
Che
è anche l'esigenza che si manifesta nella teoria dell'agire comunicativo di Habermas,
là dove egli si preoccupa di evitare la «colonizzazione» della sfera della comunicazione
sociale complessiva - la
La
quale, dunque, al di là della condivisione della sua ammirazione per la |
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