L’ECONOMIA
GLOBALE
GIOCA DURO
E SENZA RETE
di
JOSEPH E. STIGLITZ*
, 16 aprile 2003
IL FONDO monetario
internazionale ammette, ormai, che le politiche applicate in Asia orientale sono
state eccessivamente restrittive; ammette di non avere saputo gestire la
ristrutturazione bancaria in Indonesia; e ammette che la liberalizzazione del
mercato dei capitali può essere molto rischiosa. Ha persino concesso che i
salvataggi sono un errore, e ha spostato la sua attenzione sulla bancarotta e
sulle moratorie. Va detto che il fatto che il Fondo abbia riconosciuto i suoi
errori non lo rende per questo ben disposto nei confronti di chi li ricorda,
specialmente quando vengono collegati tra loro per mettere in evidenza
l’esistenza di un modello generale di comportamento. Ma il Fmi e i suoi
sostenitori hanno invece scelto di nascondersi dietro un atteggiamento che ha
già causato molti problemi: il tentativo, cioè, di creare un’immagine di
infallibilità istituzionale. Se un programma del Fmi fallisce, la responsabilità
è sempre del Paese che doveva realizzarlo, e mai del programma in sé. Visto che
i programmi sono falliti uno dopo l’altro, questo genere di difesa si sta
rivelando sempre più traballante. La globalizzazione, in effetti, può essere
una forza potente per la crescita economica e per la riduzione della povertà
(com’è avvenuto, per esempio, in Asia orientale); ma, in gran parte del mondo,
questo processo non è stato pari alle attese. I Paesi dell’Asia orientale sono
cresciuti grazie all’esportazione dei loro prodotti e all’importazione delle
innovazioni tecnologiche; ma hanno adottato la globalizzazione alle proprie
condizioni, e l’hanno gestita in modi che risultassero vantaggiosi per se stessi
e per la riduzione della povertà nei rispettivi Paesi. Hanno respinto l’ipotesi
di una liberalizzazione troppo rapida del capitale, del commercio e della
finanza, assieme ad altre politiche che sono state invece imposte altrove dagli
organismi economici internazionali. Ai Paesi che hanno seguito i dettami
delle istituzioni economiche internazionali non è andata altrettanto bene. In
America Latina — che viene spesso citata come la regione che ha risposto nel
modo più efficace alle direttive del Fondo monetario internazionale — il tasso
di crescita, nell’ultimo decennio, è stato di poco superiore alla metà di quello
degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, ossia i decenni anteriori alle
riforme; la disoccupazione è aumentata di tre punti in percentuale, e la povertà
(misurata su uno standard di due dollari al giorno), anche se paragonata alla
percentuale della popolazione, è a sua volta aumentata. L’Argentina, allievo
modello del Fmi, è diventata la pecora nera della regione. La globalizzazione ha
reso l’insieme dell’America Latina più vulnerabile alle fluttuazioni del mercato
globale, senza rafforzare le reti di protezione negli Stati nazionali, che oggi
ne subiscono le conseguenze. Talvolta si indica il Cile come l’eccezione,
probabilmente l’eccezione che conferma la regola. Ma un esame più attento
dell’esperienza cilena dimostra che tale traiettoria ha avuto successo perché è
stata selettiva, ossia perché
non ha seguito, in punti chiave, i dettami del Fmi. La realtà è che la
struttura di governo del Fmi non è democratica, visto che un unico Paese dispone
di un veto di fatto, e che i ministri delle finanze e governatori delle banche
centrali sono i soli ad avere voce in capitolo su questioni che hanno invece
enormi conseguenze per tutti i segmenti della società. Ma è vero anche che le
alternative sono tutt’altro che semplici. Se i diritti di voto fossero assegnati
sulla base della popolazione, Cina e India avrebbero un dominio di fatto. E se
dovessimo accettare il principio “one person one vote", come ci dovremmo
comportare con i governi dei Paesi che non sono democratici, e in cui nessun
cittadino ha diritto di far sentire la propria voce? Ritengo che tali
questioni meritino una discussione più vasta, una discussione essenziale per
prendere decisioni in modo democratico. Nelle loro relazioni con i Paesi in via
di sviluppo, i consiglieri economici occidentali non sono riusciti fino ad oggi
ad adottare un atteggiamento appropriato, che avrebbe dovuto essere quello di
informare i Paesi stessi sulle possibili alternative, sui trade-off impliciti e sulle incertezze da
affrontare. Non esiste una singola politica dominante alla Pareto, una singola
politica che funzioni meglio di qualsiasi altra. E questo è ancora più vero
quando si tenga conto della incertezza relativa alle conseguenze delle varie
politiche. Politiche diverse implicano rischi diversi per gruppi diversi. Nei
Paesi industriali avanzati riconosciamo pienamente questo punto e discutiamo
appassionatamente sulle questioni economiche: sul ruolo dello Stato, sulla
necessità di trovare un equilibrio tra rispetto per l’ambiente e prospettive di
guadagno economico, sui diritti al lavoro, sulla privatizzazione della
previdenza sociale, sulla indipendenza delle banche centrali. Se le risposte
fossero ovvie, ci sarebbe unanimità. Ma non lo sono, e le persone ragionevoli —
compresi gli economisti ragionevoli — possono avere naturalmente opinioni
diverse. La mia preoccupazione non è semplicemente che il Fmi abbia preso
posizioni che ritenevo sbagliate, ma che esso abbia agito come se non ci fossero
alternative.
*Premio Nobel per l’economia
[Questa
è la sintesi autorizzata di un articolo che verrà pubblicato sul numero 20 di
Aspenia, “Il prezzo dell’impero".]
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