Le risposte
al popolo
di Seattle
di
RALF DAHRENDORF
, 10 luglio 2001
LE folle di contestatori che portarono a Seattle ad una prematura
conclusione del vertice dell'Organizzazione Mondiale del Commercio erano
solo l'inizio. Oggi sappiamo che tutti gli incontri internazionali ad alto
livello sono accompagnati da dimostrazioni con lancio di pietre, massiccia
presenza di forze di polizia e rigide limitazioni alla libertà di
movimento dei normali cittadini. Il vertice del G8 a Genova rappresenterà
il primo evento culminante di questa nuova esperienza, ma certo non l'
ultima occasione del genere. Perché? E che cosa dobbiamo fare noi? Il
primo punto fermo da stabilire è che la violenza nelle strade di paesi
liberi è inaccettabile. Le democrazie hanno altri modi di esprimere punti
di vista diversi, persino i più radicali. Bisogna proteggere la vita
civica da gruppi decisi a provocare disordini lanciando pietre e
incendiando automobili. Ma non ci si può limitare a questo. Ci sono
interrogativi a cui rispondere, incluso il più doloroso: le democrazie
hanno davvero altri modi per esprimere i sentimenti condivisi da tanti
sulle conseguenze della globalizzazione? Non dobbiamo illuderci: molti di
quelli che non si sognerebbero mai di unirsi ai dimostranti nelle strade
nutrono comunque una certa inconfessata simpatia per i loro slogan.
"Dateci qualcosa di più bello della globalizzazione", recitava a Londra
uno di questi. Non è peraltro semplice capire che cosa voglia il popolo di
Seattle. Le sue rivendicazioni mescolano odi sconsiderati e illusioni.
Sono contro il libero commercio e a favore del Terzo Mondo, contro
l'Europa e per il protocollo di Kyoto, contro il capitalismo e a favore di
un qualche idillio arcadico, contro l'America e per la dolcezza e la luce.
Soprattutto sono arrabbiati. E' facile respingere le rivendicazioni
del popolo di Seattle e denunciare quanto sia fallace il suo astio. Non è
altrettanto facile rispondere alla sua rabbia. Lasciando da parte le
minoranze che scendono in strada, c'è una rabbia diffusa dovuta alla
sensazione di impotenza che provano i cittadini dei paesi democratici.
Essi hanno l'impressione che importanti decisioni che riguardano le loro
vite siano emigrate dalle istituzioni che essi possono controllare. Quando
si tratta di decisioni chiave sembra che non abbia più importanza chi
abbiano eletto nei parlamenti nazionali e a guidare i vari governi. Il
futuro dell'ambiente in cui viviamo, la creazione o la distruzione di
posti di lavoro da parte di grandi imprese, il destino dei poveri in
patria e all'estero, il valore della nostra moneta, queste ed altre
questioni vengono decise in luoghi remoti, forse in modi che sfuggono
completamente ad un'identificazione. Ecco dove sopraggiunge la
minaccia della globalizzazione. Il termine è quasi un sinonimo per
l'incapacità dei cittadini a gestire gli eventi che li riguardano. La
reazione più innocua è di dar vita ad una controparte sotto forma di
associazioni locali, talvolta regionali. Non stiamo vivendo solo la
globalizzazione ma anche la glocalizzazione, cioè il simultaneo
rafforzamento del processo decisionale sia a livello mondiale che prossimo
a noi, sia globale che locale. In un certo senso il governo Berlusconi è
una coalizione di entrambi che resta da vedere se terrà. Ma la
glocalizzazione è una reazione innocua. Più pericolosa è la rabbia che si
propone di distruggere tutto quanto simbolizzi l'impotenza dei cittadini.
L'anticapitalismo può diventare una forza importante a servizio di un
nuovo fondamentalismo. L'antiamericanismo può condurre ad un attacco
illiberale alla modernità. Ad un capo della strada della reazione
arrabbiata alla globalizzazione c'è la nostalgia per una vita premoderna
che nella pratica può rivelarsi disastrosa. Non è in realtà dissimile
dall'ideologia del fascismo e soprattutto dal nazional socialismo, che
inneggiava a sangue, terra e maternità ma praticava repressione e
totalitarismo. Ci sono quindi tutti i motivi per ripensare la
democrazia alla luce dell'istanza di mantenere la globalizzazione sotto
una qualche forma di controllo civico. L'Unione Europea dimostra quanto
ciò sia difficile. Nonostante le belle parole del nuovo presidente del
consiglio della Ue, il primo ministro belga Verhofstadt, non sembra che
l'Unione stia diventando democratica nel senso stretto del termine. Può
forse, e deve, diventare più trasparente, più responsabile, più sensibile
alle esigenze della gente. La reazione al referendum irlandese su Nizza
ricorda una battuta di Berthold Brecht che invita ad andarsi a cercare un
altro popolo se il popolo non obbedisce. Una ricetta destinata a non fare
troppo effetto su un'Europa democratica! Per avere trasparenza e
responsabilità nella Ue è probabilmente necessario un più forte legame con
le istituzioni politiche nazionali e sicuramente l'abbandono della prassi
secondo la quale le decisioni vengono prese dai ministri a porte chiuse.
Ma i cambiamenti istituzionali rappresentano solo una piccola parte di
ciò che bisogna fare. Molto più importante è la necessità di una visione
del futuro in prosperità e libertà. Ora che ci siamo lasciati dietro le
spalle l'episodio della "terza via" e che sappiamo che la globalizzazione
associata a belle parole di compassione e comunità non è abbastanza, è
giunto il momento di pensare in modo nuovo. Ciò avrà molto a che fare con
la libertà. Viene in mente il saggio sul capitalismo di Adair Turner o
"Sviluppo è libertà" di Amartya Sen. Abbiamo più spazio di manovra in
politica di quanto pensi chi considera la globalizzazione una fatalità e
dovremmo usarlo. Intanto il popolo di Seattle non andrà via. Servirà
da scomodo richiamo alla necessità di progredire, il che non giustifica i
mezzi di azione scelti, ma aiuta a combattere l'acquiescenza e l'apatia.
(traduzione di Emilia Benghi)
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